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I miracoli ti trovano

I miracoli ti trovano

di Norma Giumelli

Danielle era arrivata da lontano, aveva viaggiato sul “Treno dei sogni”, quello che l’avrebbe portata verso il suo destino; aveva soltanto 16 anni e tanta voglia di vivere. La valigia che le aveva regalato suo padre stava appoggiata per terra e mentre la ragazza si toglieva i guanti, una donna aveva aperto il grande portone della tenuta del Conte Bartolomi.
Il cielo della Francia era ormai lontano quando Danielle aveva fatto un mezzo inchino davanti alla governante, con un timido sorriso; per tutta risposta al suo rispettoso saluto, la donna aveva risposto con un caloroso abbraccio ed una carezza che le aveva scompigliato i capelli. La ragazzina si era sentita, in qualche modo, a casa; quel gesto familiare, tra le mani di un’estranea, l’aveva fatta sentire attesa e apprezzata; suo padre non si era sbagliato, le aveva detto che avrebbe impiegato poco tempo per abituarsi a questa nuova situazione. Danielle sentiva, in cuor suo, che ciò era possibile.
“Finalmente sei arrivata! Entra, sarai gelata”. La governante, con un gesto materno, l’aveva avvolta in una nuvola di tenerezza e la ragazza aveva potuto sentire il profumo del sapone sui suoi capelli, raccolti in una coda di cavallo non troppo curata, che oscillava ad ogni movimento del capo.
In effetti, Danielle, aveva sentito freddo per quasi tutto il viaggio, ma ora l’emozione glielo aveva fatto dimenticare; una volta entrata in casa, ne aveva ammirato la grandezza, l’ordine e la pulizia.
“Hai fame, piccola?”. Mentre veniva accompagnata nel suo alloggio, una stanza almeno quattro volte più grande di quella alla quale era abituata, lo stomaco si era fatto sentire e non soltanto da lei.
“Non troppa, posso attendere, Madame”. Una delle continue raccomandazioni di suo padre era stata proprio quella di non dimenticare mai la buona educazione.
Il cielo del centro Italia, quel giorno, assomigliava molto a quello della sua Francia, sopra il grande prato alla periferia del quartiere dove Danielle abitava e dove aveva lasciato suo padre, malato di colera; era il 1833 e l’epidemia aveva già raggiunto molti paesi. Suo padre era stato portato via e lei non aveva potuto fare niente, soltanto obbedire al suo volere.
“Devi partire, Dan; ho già scritto al Conte, siamo grandi amici e si occuperà di te. Troverai le istruzioni per il viaggio dentro il mio libro”. Danielle aveva guardato il libro appoggiato sul tavolo, era la prima volta che lo vedeva così lontano dalle mani del padre. La ragazza conosceva bene quel libro, era di Alphonse de Lamartine: “Le nouvelles meditations poétiques”. Una, era la considerazione del poeta che si sedeva comodamente, ora, nella mente di Danielle e recitava queste parole: “Ignorant d’où je viens, incertain où je vais.”; la meditazione poetica, “L’Homme”, le appariva ora in tutta la sua verità. La ragazza aveva piena fiducia nel padre, ma ora che doveva separarsene non aveva più la certezza di camminare sulla terra, perché nulla sembrava appartenerle ancora.
Suo padre e il Conte Bartolomi si erano conosciuti in uno dei viaggi d’affari che il primo aveva affrontato due anni prima, in Italia, organizzato da un’amicizia importante e comune ad entrambi. In questa occasione i due uomini avevano avuto modo di apprezzarsi l’un l’altro. Un giorno dell’anno appena trascorso, in occasione di un’importante fiera di bestiame in Italia, il Conte aveva aiutato il padre di Danielle a vendere tre mucche al prezzo pattuito, recitando la parte del secondo acquirente. Dopo aver speso quasi tutti i risparmi per il viaggio, l’unica speranza era quella di riuscire a piazzare gli animali, i migliori che avesse, al prezzo che aveva stabilito, alto, ma che lo convinceva di rientrare ancora nei suoi personali canoni di onestà. La buona riuscita dell’affare lo aveva sollevato non poco, finanziariamente e di certo, moralmente.
“La cena sarà pronta tra circa un’ora, cara, hai tutto il tempo per sistemarti e ordinare le tue cose”. La governante era uscita dalla stanza, lanciando un’occhiata dispiaciuta alla valigia decisamente piccola che la ragazza stava appoggiando sul letto; “A proposito! Io sono Camilla e sono a tua completa disposizione”, il sorriso che aveva fatto seguire aveva invaso la piccola di puro ottimismo. “Io sono Danielle, anche io a sua disposizione per ogni cosa”. Stavolta era stata Camilla a sorridere e a chiudersi, soddisfatta, la porta alle spalle.
Danielle era scesa ancora prima che la governante salisse a chiamarla per la cena, non voleva farsi attendere ed era ansiosa di conoscere il Conte e sua moglie; si era soffermata ancora una volta ad ammirare l’imponenza della casa che, già dall’esterno, le aveva dato l’impressione di una reggia. L’esterno però non pareggiava la meraviglia dell’interno, nonostante l’enorme cancello in ferro battuto che l’aveva colpita immediatamente. Danielle si intendeva di arte e di mobili di una certa fattura, doveva trattarsi di una dote innata, uguale a quella che il padre aveva coltivato per tutta la vita, insieme con la lettura. La ragazza aveva sentito Camilla in sala da pranzo; il rumore delle stoviglie l’aveva raggiunta facilmente dalla porta semi aperta. Il Conte e la Contessa non c’erano ancora e lei moriva dalla voglia di dare un’occhiata alla grande sala dei ricevimenti; l’aveva soltanto intravista al suo arrivo e un luccichio l’aveva attirata, rimanendosene nella memoria per il tempo che Danielle aveva impiegato a disfare la sua essenziale valigia e a darsi una rinfrescata nel catino di porcellana in cui Camilla aveva versato da poco dell’acqua tiepida.
Entrando nella sala dei ricevimenti, la piccola, con passi leggerissimi, aveva subito alzato lo sguardo verso il soffitto, dal quale penzolava il lampadario più bello che avesse mai visto. Le dimensioni erano stupefacenti, ma la brillantezza incantava letteralmente. I mobili curati e disposti lungo le pareti erano molto belli, Danielle ne aveva riconosciuti alcuni francesi. Il piccolo divano dove stava appoggiato un ventaglio dai colori vivaci era delizioso. Le decorazioni sul legno erano semplici, ma molto aggraziate e la mezza luna che si disegnava dopo aver incastonato il pezzo finale, sopra lo schienale, da più lontano sembrava un cuore. La ragazza era certa che si trattasse di un Luigi Filippo, che in quegli anni andava molto in voga presso i nobili.
Quando Danielle aveva sentito la governante salire le scale, era uscita dalla sala, accaldata come se avesse appena partecipato ad una serata di ballo e l’aveva fermata.
“Mi sono permessa di entrare …”.
“Hai fatto bene, piccola, quel locale merita di essere visto, purtroppo però non ha più ospitato balli e sorrisi da quando …”, ma Camilla non era riuscita a continuare, aveva soltanto abbassato lo sguardo, lasciando negli occhi di Danielle il riflesso di una tristezza profonda.
“Da quando?”, ma la ragazza lo aveva appena mormorato, smorzando ancora di più quel sussurro al pensiero di essere maleducata.
Camilla l’aveva sentita, ma aveva preferito cambiare discorso.
“I Conti si stanno accomodando in sala da pranzo, saranno felici di conoscerti”.
A pochi passi dietro Camilla, Danielle si aggiustava il vestito “buono”, lisciandolo con le mani e cercando di darsi un certo tono. La governante, scorgendola con la coda dell’occhio non era riuscita a trattenere una risatina. Se solo tu sapessi quanto ricordi Lory, non ti preoccuperesti di fare bella figura, piccola mia. Questo pensiero aveva condotto Camilla proprio ai piedi delle scale, dalle quali ora scendevano marito e moglie, i Conti Bartolomi.
La ragazza se ne stava semi nascosta dietro la figura di Camilla che, con il sorriso più dolce del mondo, si scansava leggermente sul lato destro per mostrare ai Conti la loro ospite.
La Contessa si era dovuta fermare per non inciampare sull’ultimo scalino e il Conte l’aveva prontamente sorretta; lui aveva già veduto la piccola Danielle, l’aveva scorta in Francia, a casa del suo amico, il padre della ragazza, qualche mese prima, in occasione di un viaggio di affari a Parigi; conosceva la forte emozione che sarebbe potuta nascere anche nell’animo di sua moglie.
“Conte, Contessa, vi presento Danielle, venuta dall’Italia e ansiosa di esservi utile”. La governante aveva fatto un passo indietro per allinearsi con la piccola che, senza rendersene conto, aveva cercato la mano di Camilla; pronta a fargliela trovare, la donna, in quel momento, aveva capito che tra loro si era già instaurato un forte legame.
L’inchino che Danielle aveva riservato ai Conti era stato timido, ma perfetto e la Contessa, ormai dinnanzi a lei, aveva preso nelle proprie le mani della ragazza, avvicinandole l’una all’altra. Il marito avrebbe voluto fare altrettanto, ma la Contessa era rimasta immobile davanti a Danielle, guardando ora lei, ora Camilla.
“La cena è pronta, piccola, vieni” era poi riuscita a dire e l’aveva condotta, senza averle lasciato le mani per un secondo, nella sala da pranzo. La governante le aveva anticipate e aveva provveduto ad estrarre le seggiole; soltanto quando la Contessa era riuscita a realizzare che anche Danielle avrebbe potuto avere fame, l’aveva liberata dalla sua stretta. La ragazza era molto affamata e quando Camilla aveva servito la zuppa fumante e odorosa di buono, si era dovuta trattenere non poco dal mettersi a mangiare immediatamente. Seduta accanto alla Duchessa e con il viso del Conte dalla parte opposta del tavolo, Danielle aveva sentito, oltre alla fame, una grande nostalgia: le mancava terribilmente suo padre.
“Cos’è quello?”, le aveva domandato la Duchessa che finalmente aveva ripreso la favella e aveva notato il libro che la ragazza aveva appoggiato sul tavolo, di fianco al piatto.
“E’ il libro di mio padre”. A Danielle non era sfuggito il suggerimento di Camilla che, dalle spalle del Conte e approfittando di non essere vista dalla Duchessa, le stava mostrando lo scopo della ciotola di acqua di fianco al piatto, sfiorandone l’acqua con le dita, aspettando che anche i suoi ospiti facessero lo stesso; si trattava di acqua e limone e serviva per pulirsi le mani prima di pranzare, non era una bevanda come aveva pensato in principio Danielle. La delicatezza di questo gesto non era passata inosservata agli occhi della Duchessa che ancora stava pensando al libro e a quanto potesse essere importante per Danielle.
“Domani il Conte partirà per la Francia con il treno del mattino; se avrai una lettera per tuo padre, lui farà in modo di fargliela avere”.
Non doveva essere stato semplice per lei, aveva pensato la Contessa, partire così, all’improvviso e aver dovuto lasciare il padre condannato a morire.
Danielle non era riuscita a pranzare lentamente quel primo giorno, soprattutto dopo la proposta della Duchessa.
“Comincerò subito a scriverla!”. Aveva atteso che i Conti si alzassero e li aveva imitati, congedandosi e ringraziando di ogni cosa.
L’indomani mattina, mentre il Conte scendeva le scale con cappello, mantello e valigia (enormemente più grande della sua), la ragazza lo attendeva trepidante in fondo alle scale di marmo nero screziato di rosa antico e teneva sul cuore la lettera che aveva scritto a suo padre.
“Non so se mio padre potrà rispondermi, né se potrà leggerla; Vi prego di leggergliela, Conte e di portarmi sue notizie al più presto”. Gli occhi lucidi di Danielle avevano profondamente intenerito il Conte.
“Non dubitarne, piccola, ti porterò ogni sua parola, la custodirò dentro ogni pensiero che avrò, fino al mio ritorno”. L’uomo avrebbe voluto stringerla a sé; non si capacitava ancora della stupefacente somiglianza con Lory; ma la piccola lo aveva preceduto, alleggerendolo di un peso che al momento non avrebbe potuto spiegare. Danielle aveva abbracciato il Conte, piangendo le lacrime che nemmeno durante il viaggio era riuscita a versare.
“Andrà tutto bene, piccola, non temere” e si era allontanato dandole presto le spalle per timore di essere visto ai limiti della commozione.
Due giorni più tardi il Conte era a Parigi e una volta trovato il luogo dove avevano portato il suo amico (un lazzaretto colmo di corpi vaganti o lasciati a morire in solitudine) si era avvicinato, protetto con gli indumenti appropriati ad una serviente e aveva chiesto del Sig. Arnaud Martin. Il tempo che Bartolomi aveva dovuto attendere per vedere tornare la donna alla quale aveva chiesto di cercare il suo amico, lo aveva reso pessimista circa l’esito positivo, ma la serviente era tornata accompagnando a stento un uomo che ormai non si reggeva più in piedi. A debita distanza, Arnaud, aveva visto il Conte e l’unica parola che era riuscito a dire, prima che la donna lo adagiasse con fatica a terra, senza vita, era stata: “Danielle …”.
Il Conte si era avvicinato, ma la donna aveva scosso la testa in segno di resa e lui aveva compreso che per lei questa doveva essere stata l’ennesima della giornata e che non si era ancora abituata ad accettarlo.
L’amico superstite aveva estratto la lettera di Danielle e si era chinato a pochi passi da Arnaud; gliel’aveva letta tutta e aveva pregato la serviente di infilarla sotto la mantellina che lo copriva. Dopodiché, rimasto solo con il suo amico francese, si era lasciato prendere dallo sconforto:
“Mi dispiace di non aver potuto fare qualcosa. La tua piccola Danielle è con noi e io ti prometto, caro amico, che ne avrò cura come se fosse mia figlia; tu sai quanto le somiglia. L’ultima volta che ci siamo visti ti ho detto che, vedendola, ho creduto ai miracoli, io che non li ho mai ritenuti possibili e tu mi hai risposto che i miracoli esistono dal momento stesso in cui ti trovano. Non lo avevo capito, sai? ma lo sguardo sorridente che aveva incontrato il mio, di sfuggita, quel giorno, a casa tua, me lo aveva già detto. Tu lo sapevi ed io no, ma non avrei mai pensato che tu dovessi andartene perché anche io potessi scoprirlo”.
Dopo altri quattro giorni, il tempo di svolgere i suoi affari, il Conte faceva ritorno a casa. Sulla porta c’erano Danielle e Camilla ad attenderlo. Lo sguardo sfuggente e le poche, concise parole avevano soltanto confermato alla ragazza ciò che in cuor suo aveva già sentito giorni addietro. Non aveva chiesto niente, ma ancora una volta la sua mano aveva cercato quella della governante la quale, con una stretta al cuore, gliel’aveva di nuovo concessa.
La Contessa lo aspettava al piano superiore; non avevano ancora parlato di tutto quello che era successo dall’arrivo di Danielle e quando il marito le aveva raccontato l’accaduto, lei aveva pianto per un uomo che non conosceva, ma che era stato il custode di un amore grande e rumoroso, come il sorriso che fa l’anima quando vorrebbe uscire dal corpo per la gioia di avere una figlia, o di avere un padre … e di esserne teneramente innamorati.
Intanto la ragazza cominciava a studiare; Danielle sapeva già leggere e scrivere, grazie al padre che glielo aveva insegnato, ma i Conti le avevano riservato un’istruzione completa, la stessa che avevano cominciato a dare alla loro unica figlia Lory, prima che si ammalasse e se ne andasse alla giovane età di 13 anni.
Era stata Camilla a raccontare a Danielle della piccola Lorena e di come lei le somigliasse. I capelli erano l’unico aspetto che le differenziava, rossi i suoi e biondi quelli di Lory, ma per il resto avrebbero potuto tranquillamente essere gemelle. C’era un ritratto nella camera da letto di Lory e Camilla glielo aveva mostrato, con il permesso dei Conti e Danielle stessa aveva avuto un sussulto, vedendolo. La ragazza aveva guardato la stanza da letto della figlia dei Conti con grande emozione: era davvero bellissima, luminosa, grande e la finestra più ampia dava sull’immenso giardino che, lentamente, si risvegliava accogliendo il verde più cupo della stagione fredda che volgeva al termine.
La sera successiva, il Conte Bartolomi aveva raggiunto Danielle nello studio in cui si svolgevano le lezioni; sapeva di trovarla a sfogliare i libri della biblioteca.
“Vieni qui, piccola”. Si era rivolto a lei con un tono di voce che rasentava la commozione.
“Eccomi, Signore”.
“Ti prego, Dan, non chiamarmi Signore … e ascoltami”. Ancora non aveva avuto cuore di parlarle del giorno in cui aveva incontrato suo padre, al lazzaretto; avrebbe voluto tornare con la notizia di essersi preso cura di lui, di averlo portato via da quel luogo, ma non ne aveva avuto il tempo, l’amico se ne era andato senza lasciargli il modo di salvarlo. Quel giorno il Conte aveva capito che non tutti potevano essere salvati e che il destino di alcuni faceva parte di un disegno ben più grande di quello che si poteva scorgere attraverso il cappuccio di una mantellina grigio-scura.
Soltanto suo padre la chiamava così e questo diminutivo le era mancato tanto.
“Non so come rivolgermi a Voi, Signore”, ma ciò che più le premeva era ascoltare il racconto dell’incontro con suo padre. Voleva sapere cosa avesse detto, voleva conoscere le sue ultime parole, voleva essere certa che lui avesse potuto ascoltare le parole di affetto che gli aveva scritto. Il Conte lo sapeva e non era riuscito a dirle che gli aveva letto la lettera quando ormai suo padre non avrebbe più potuto ascoltarla. In fondo, chi poteva dire se la dipartita portasse, senza ombra di alcun dubbio, anche all’incapacità di ascoltare ciò che dovrebbe essere eterno? L’amore? Così le aveva detto di aver letto la lettera ad un padre commosso e pieno di amore per sua figlia; il Conte aveva raccontato a Danielle di come la malattia fosse ormai troppo avanzata e di quanto sforzo suo padre avesse fatto per sentire ogni singola parola della sua lettera; le aveva poi raccontato di essere andato a Parigi per lavoro, ma soprattutto per portare suo padre in un luogo migliore e di come si fosse sentito inutile quando il tempo si era portata via questa speranza, insieme con il suo amico.
“Voi avete fatto più di ciò che pensate”, gli aveva detto Danielle, “Gli siete stato accanto nel momento in cui nessun essere umano dovrebbe essere solo, senza un affetto”.
“Mi solleva e mi rincuora sapere questo tuo pensiero, cara. Puoi rivolgerti a me come meglio credi, se chiamarmi Signore ti fa sentire a tuo agio, allora continua a chiamarmi così, ma sappi che ora sei parte di questa famiglia e se troverai un altro modo di pensare a quest’uomo che già ti vuole bene, usalo senza preavvisi, mi faresti felice”.

La vita di Danielle andava somigliando sempre di più a quella della figlia di un Conte; ormai ventenne e con un’intelligenza superiore alla norma, aveva fatto dello studio la sua maggior passione. Anche in ciò Danielle somigliava molto a Lory: l’entusiasmo per lo studio, in ogni materia, la portava a scoprire tutto più in fretta e meglio di chiunque studiasse per obbligo o per etichetta.
La sua migliore amica, l’unica che avesse avuto, era sempre Camilla, la quale la accompagnava ovunque e le cuciva i vestiti che la ragazza stessa disegnava per sé.
Mancava ancora una cosa per coronare il sogno di Danielle … la sala dei ricevimenti veniva pulita da lei e Camilla ogni giorno, ma i Conti non sembravano ancora propensi ad utilizzarla. Durante quell’ora e mezza in cui le due donne si occupavano della sala, Danielle fantasticava con la governante e volteggiava, e danzava e cantava al ritmo di una musica che solo lei poteva sentire.
Il giorno del ventunesimo compleanno di Danielle, la Duchessa era stata l’ultima a darle il regalo; l’aveva accompagnata al piano superiore, per darle la buonanotte, ma invece di condurla a braccetto nella sua stanza, l’aveva portata nella stanza da letto di Lory e le aveva detto: “Da stanotte, se lo vorrai, questa sarà la tua stanza, piccola mia”. Non aveva mai smesso di chiamarla piccola mia e Danielle ne era contenta, ma quel regalo non se lo aspettava e non aveva saputo cosa dire; non ne aveva però avuto bisogno perché l’abbraccio sincero e affettuoso con cui aveva stretto la Contessa era riuscito ad esprimere più di quanto le parole potessero raccontare.
“Grazie … Mamma”, aveva sussurrato Danielle prima di addormentarsi e la Contessa lo aveva sentito, perché era rimasta a chiacchierare con lei fino a quando gli occhi avevano aiutato la giovane a rilassarsi e a cedere il passo al sonno ristoratore di tante e grandi emozioni.
Era avvenuto tre giorni dopo: la ragazza aveva trovato, sopra l’armadio, nascosto sotto una soffice coperta blu, quello che poteva considerarsi un diario appartenuto a Lory. Non sapeva se potesse leggerlo o se dovesse portarlo alla Duchessa. Aveva deciso di non invadere quell’intimità, quando dalla finestra un forte colpo di vento aveva portato un deciso refolo d’aria proprio tra i fogli che teneva tra le mani. La grafia di Lory era molto piacevole e una frase era balzata subito all’occhio attento di Danielle: il mio sogno è quello di diventare infermiera. Sono ammalata e credo che non mi salverò, ma se ne avessi il tempo cercherei di salvare le persone, specialmente i bambini, i ragazzini, quelli come me, che vogliono vivere, ma non possono …
Era stato un fulmine; Danielle aveva saputo in quel momento cosa sarebbe diventata. Sarebbe riuscita a riaprire la sala dei ricevimenti e avrebbe dato la notizia proprio in quell’occasione, sarebbe diventata un’infermiera e avrebbe realizzato il sogno di Lory, una “sorella” silenziosa, solo all’orecchio, che si era annullata per regalarle un futuro. Non sapeva se esistesse l’opportunità di studiare la materia in modo tanto approfondito, ma sapeva che lo avrebbe scoperto e che avrebbe presto saputo anche come riuscirci.

Pochi mesi dopo, con un bellissimo vestito bianco e blu, Danielle entrava nella sala dei ricevimenti alzando lo sguardo ad ammirare il meraviglioso lampadario che tanto l’aveva colpita il giorno del suo arrivo e che ora sembrava luccicare ancora di più. I cavalieri, composti e perfetti nei loro abiti, si erano voltati per ammirare l’eleganza e la solarità di una ragazza che sembrava pensare a tutto tranne che a quanto fosse bella. Il Conte Bartolomi avrebbe voluto che il suo amico fosse stato in sala proprio in quel momento: sarebbe stato fiero ed orgoglioso di sua figlia: egli stesso lo era.
Erano già cominciati i balli, quando Danielle aveva abbassato la musica, lasciandola continuare a danzare in sottofondo, e avevo preso la parola.
“Vado a prendere la protagonista di questa bellissima serata”. Era il compleanno della Contessa e Danielle l’aveva raggiunta mentre finiva di vestirsi.
“Mamma, Vi stiamo aspettando”. L’eccitazione nella voce della ragazza e la sua impazienza avevano fatto sorridere la Contessa.
“Devo darvi una cosa; spero mi perdonerete se ho aspettato tanto, ma non avrebbe avuto senso questa serata se lo avessi fatto prima”. Danielle aveva consegnato il “diario” di Lory a sua madre.
“Dovete leggere in questo punto, su questo giorno” e le mostrava il foglio giusto “Dovete leggerlo prima di scendere, io Vi aspetterò”.
Quando le due donne avevano raggiunto l’entrata della sala dei ricevimenti, una ragazza prendeva in mano le redini del suo futuro ed una donna si accorgeva di quante volte e in quanti modi ci si potesse sentire madri. La Contessa ascoltava parlare una ragazza venuta dal Cielo, nel giorno del suo compleanno, la quale le comunicava di voler realizzare il sogno di una sorella che non aveva mai conosciuto, ma che aveva imparato ad amare grazie alla bellezza del cuore di due splendide persone: quelle che ora considerava come suoi genitori.

Era il 16 maggio del 1839 e gli studi scientifici di Danielle proseguivano verso quello che sarebbe stato il lavoro di tutta la sua vita: la medicina. Un uomo abbracciava sua moglie, fiero di una donna che ormai considerava sua figlia, appagato per aver assolto alla promessa fatta al suo amico, tanti anni prima.
Una governante, ferma sulla porta, senza abiti di servizio, dentro il vestito che Dan aveva disegnato per lei, rispondeva all’inchino di un cavaliere pronto ad invitarla a ballare …

Norma Giumelli  La lacrima di Cosetta

 

 

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