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La lettera

La lettera

di G. Ghirelli

Quinta parte di sei

La partenza

Stella, a bordo della sua Lancia Ypsilon, faceva strada a Bren, che senza lo zaino sulle spalle era più libero nei movimenti. I suoi bagagli erano sull‘auto, insieme a una borsa da viaggio di Stella.
Lei voleva regalargli un quadretto. Vi erano dipinti due fichi d’India verdi, non ancora maturi per essere staccati dalla pianta. “Te lo avvolgo bene nella plastica, così anche se piove non si bagna”.
Ma quando avevano provato a metterlo nello zaino, non ci entrava. “Allora te lo spedirò” gli disse.
Quando Stella gli aveva mostrato i suoi dipinti, Bren era rimasto ammirato dallo stile di pittura, che con raffinata tecnica iperrealista riproduceva con caldi colori e luminosità, volti di persone, frutta, paesaggi e oggetti vari. Ma quando lui aveva visto il quadro dei mandarini che c’era esposto alla Mostra all’Elba, si era soffermato più a lungo ad ammirarlo, perché quello era particolare.
“Vuoi sapere perché non me ne separerò mai?” gli aveva chiesto.
Naturalmente Bren disse di sì. Visto che non poteva avere quel quadro, almeno la consolazione di conoscere perché Stella vi fosse così legata.
“La lingua di mare che vedi racchiusa dai due promontori, è il Golfo di Torre del Budello. Prende il nome dalla torre che vedi sul promontorio di destra, che è una decina di metri sul livello del mare. La storia della torre la conosco bene, perché me la raccontò mio padre. Fu costruita nel 1600 e venne denominata Torre del Budel, e anche Torre di Teulada. Era una ‘torre de armas’, presidiata da un artigliere e quattro soldati. Ebbe quella funzione fino alla metà dell’800, poi venne dismessa e smilitarizzata, e divenne un monumento alla memoria del passato, come tutte le altre torri che difendevano dalle incursioni dal mare. Sulle coste della Sardegna se ne trovano ancora molte. Però quella, per mia madre aveva qualcosa di particolare, forse perché era la più vicina al suo luogo natio. Una volta che uscì in barca con mio padre, quando passarono sotto la torre, disse che avrebbe desiderato che quella fosse la sua ultima dimora, quando… Il quando, avvenne nel mettermi al mondo. Mio padre volle rispettare il suo desiderio, ma non poteva certo seppellirla in un luogo che era patrimonio dello Stato. Allora, dopo aver fatto cremare le sue spoglie, prese la barca e andò a spargerle in mare sotto la torre. Quando fui grande, lui mi fece fare una promessa, cioè di spargere le sue ceneri nel medesimo posto. E io ho rispettato la promessa. Poi, quando iniziai a dipingere, mi venne il desiderio di fare un quadro dedicato a lui, ma non mi sentivo di fare un ritratto. Ricordavo che la frutta che piaceva di più a mio padre erano i mandarini. Allora ho pensato di dipingere questi frutti, posati sulla balaustra di un balcone affacciato sul golfo dove ho sparso le sue ceneri. Per me sono un pensiero per lui, come fossero fiori su una tomba”.
A Bren si erano inumiditi gli occhi per la commozione. Le disse: “Più ti conosco e più scopro quale anima bella sei”. E la decisione di partire gli pesava dentro il cuore come un macigno. Ma non doveva avere ripensamenti. Lasciare quel posto doveva prevalere su tutto, almeno fino a quando…
Stella gli aveva detto che la prima sosta l’avrebbero fatta al Castello di Acquafredda, nei pressi di Siliqua, a una quarantina di chilometri dalla partenza, che non era stata rapida, cioè alle quindici, perché dopo aver visto i quadri, lei aveva preso una cartina della Sardegna, e seduti al tavolo della saletta, dopo averci pensato un po’, con la matita aveva fatto dei cerchietti su alcuni punti.
Poi, prima di spiegargli il programma del viaggio, lo aveva informato che probabilmente dovevano fermarsi fuori due notti invece che una. Bren aveva risposto che gli stava bene, e allora lei aveva messo la punta del dito sul primo cerchietto, e come se avesse fatto di professione la guida turistica, aveva iniziato a descrivere il programma. E siccome Bren, tra i pochi pregi che aveva, c’era quello di avere una memoria di ferro, se lo era fissato nella mente abbastanza bene.
Stella disse che il castello di Acquafredda è posto su un colle di origine vulcanica a circa duecento metri di altezza. Si ritiene che esistesse già dal XII secolo, e la sua costruzione è da attribuire al nobile pisano Ugolino della Gherardesca.
Visto il castello, avrebbero fatto rotta verso Nord-Est per centosessanta chilometri fino ad arrivare a Bari Sardo, dove, su un’ incantevole spiaggia c’è la Torre di Barì, costruita nel 1500 a difesa delle incursioni dei pirati. La torre fu voluta dal viceré di Sardegna, che pare fosse stato anche Barone dell’Isola d’Elba.
Poi, con una quindicina di chilometri, avrebbero raggiunto Arbatax, dove, entro un raggio di pochi chilometri, vi erano diversi luoghi da vedere. Per primo, le Domus de Janas, cioè Case delle Fate, antiche dimore rupestri che la leggenda racconta essere abitate da piccolissime fate con un aspetto meraviglioso e con una pelle delicata, vestite con abiti rossi, collane d’oro e fazzoletti ricamati con fili d’argento. Ma in realtà sono delle tombe pre-nuragiche scavate nella roccia più di cinquemila anni fa, e la leggenda delle fate piccolissime si deve al fatto che queste tombe sono di dimensioni molto ridotte.
Stella parlava con l’armonia di chi racconta una favola a un bambino, e tale si sentiva Bren, sempre più catturato da quell’ammaliante creatura. E avrebbe voluto manifestarle concretamente quanto la desiderasse. Ma non c’era tempo per distrarre Stella dalla descrizione del viaggio, altrimenti non sarebbero partiti più.
Ora lei stava parlando della Torre di San Gemiliano, che dista quattro chilometri da Tortolì, vicino ad Arbatax. La torre risale all’inizio del ‘600, ha un’altezza di dodici metri e al suo interno si trova una piccola camera. La torre venne costruita come vedetta e difesa dai pirati. E’ posta sopra uno sperone di roccia alto una quarantina di metri, e ha una visuale di oltre venticinque chilometri sull’orizzonte marino. Originariamente era detta in arabo ‘Taratasciar’ ossia ‘Tredicesima torre’, e solo a metà del ‘700 prese l’attuale nome.
Poi sarebbero andati a Capo Bellavista, dove, su un promontorio, l’omonimo faro domina sul mare.
In origine era una torre di avvistamento e fu trasformato a faro a metà ‘800. Dall’altezza dei suoi centocinquantasei metri, il suo segnale raggiunge una distanza di circa ventisei miglia.
“Cosa dici se beviamo un caffè?” la interruppe Bren, poiché gli serviva una pausa per raffreddare il cervello, che tra nomi e numeri stava andando in fusione.
“Preparo il caffè e poi ti faccio assaggiare un liquorino di mirto che faccio io. Non è forte, è fatto con le bacche bianche, che sono più delicate”.
“Allora non fare il caffè, bevo solo il liquore, se non mi dà alla testa, perché poi sulla moto…”.
“Un goccino” rispose lei, alzandosi e dirigendosi in cucina.
Tornò con un piccolo vassoio quadrato di ceramica bianca decorata a foglie verdi, su cui c’erano due bicchierini a calice di vetro sottile cesellato con motivi floreali, e una piccola bottiglia di vetro trasparente, in cui si vedeva un liquido di colore leggermente ambrato, più chiaro del solito liquore di mirto.
“Che belli! Mi ricordano i bicchierini che le signore irlandesi usavano per offrire lo cherry!”
“Questi erano della nonna” rispose lei mentre versava un dito di liquore nei bicchierini.
“Al nostro viaggio!” disse poi, facendo tintinnare il suo bicchierino con quello di Bren.
Era un liquore dal profumo delicato e il gusto morbido, che deliziava il palato con note aromatiche.
“Squisito!” esclamò Bren posando sul vassoio il suo bicchierino, svuotato in un sorso.
“Insieme al ginepro, la pianta di mirto è quella che amo di più”. Poi, vedendo Bren che guardava mesto il calicino vuoto, chiese: “Ne vuoi ancora un goccio?”.
“Poco poco, per bagnare solo la bocca” rispose lui, che in bocca aveva l’acquolina.
Bevuto il liquore, Stella sparecchiò il tavolo e rimise al centro la cartina della Sardegna.
“Poi, a una ventina di chilometri a nord di Arbatax, ci sono antiche costruzioni chiamate ‘Nuraghe di Bau Nuraxi’. Non sono come le torri che vediamo sparse per l’isola. Sono i resti di un villaggio di antica civiltà. Il complesso, costituito da un nuraghe fabbricato con grossi blocchi di granito, comprende una torre centrale, alla quale sono state aggiunte sul fronte almeno due torri laterali, di cui, a causa di crolli e interramenti, rimangono solo le rovine. Nell’area antistante, ci sono i resti di numerose strutture abitative. Ci sono stata più volte, perché in quella piana isolata e nel silenzio, mi sento come rapita e riportata alla preistoria delle mie origini. Ma credo che per adesso basti così. Per visitare tutti i posti che ti ho descritto, dovremo fermarci in questa zona anche domani. Stasera potremmo pernottare ad Arbatax nell’hotel del Borgo Cala Moresca, che dà sul Capo Bellavista, e dopo cena, se non ti appisoli per la stanchezza, ti potrei parlare delle ultime due tappe. Per arrivare alla prima, che è la stupenda Basilica della Santissima Trinità di Saccargia, edificata nel 1100 con un’architettura romanica-pisana, faremo la strada che passa lungo il Parco del Gennargentu, dove faremo sosta nei pressi di Orgosolo, perché lì crescono dei rigogliosi cespugli di ginepro. Quindi proseguiremo in direzione di Sassari per arrivare alla Basilica. La strada è lunga, dobbiamo fare centosessanta chilometri, e credo che ci fermeremo a pernottare in quella zona. Il mattino dopo, con una novantina di chilometri arriviamo a Olbia, dove nei pressi c’è da vedere il Castello di Pedres, che domina sopra un colle con una splendida vista a trecentosessanta gradi. Infine ci recheremo al porto di Olbia. E lì ci diremo arrivederci… mi auguro…”.
Poi Stella restò silenziosa, forse in attesa che Bren si associasse a quell’augurio.
Invece lui fece finta di nulla.
“A proposito di Orgosolo -riprese lei- mi è venuta in mente la storia di Corbeddu, il leggendario bandito Sardo. E’ una storia che mi raccontò sommariamente mio padre quand’ero ragazzina, e ne fui così colpita, che quando divenni più grande, mi procurai un libro che parlava dei banditi della Sardegna. Come saprai, la zona di Orgosolo è stata famosa per i banditi, e su quel libro ho letto la vita di Corbeddu. Preferisci che te la racconti adesso oppure stasera dopo cena?”.
“Se non viene tardi, dimmela ora, mi affascinano le leggende sui banditi. Quella che più mi piace, è la storia di Stefano Pelloni, detto il Passatore, un personaggio della Romagna dell’Ottocento, una specie di Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri. E guarda caso, a proposito di banditi sardi, parecchi anni fa ho letto il libro ‘Banditi a Orgosolo’.
“La storia è questa: Nato a Oliena nel 1844, è stato uno dei più famosi banditi sardi di fine ‘800, che si diede alla latitanza dopo essere stato accusato del furto di un animale. Si nascose dentro una grotta naturale nel Supramonte di Oliena, oggi conosciuta come Grotta di Corbeddu. L’ingresso era nascosto da una stalagmite rimovibile, che il bandito toglieva per entrare e poi rimetteva al suo posto per non farsi scoprire. Aveva un elenco di omicidi, violenze, danni, furti, incendi, estorsioni, una condanna a morte in contumacia e una all’ergastolo, dodici mandati di cattura e una taglia di ottomila lire. La sua fama aumentò molto quando rapinò della sciabola, e lasciandolo in mutande, il comandante della Divisione dei Carabinieri di Sassari, che aveva dichiarato di aver debellato il banditismo nella zona di Nuoro. Si dice che, abbandonata la criminalità, abbia iniziato a svolgere con grande saggezza il ruolo di pacificatore e arbitro nelle controversie. Corbeddu collaborò con le autorità di pubblica sicurezza per liberare un commerciante francese che era stato sequestrato da un gruppo di criminali locali a scopo di estorsione. Rifiutò la ricompensa di ventimila lire, ma ottenne una franchigia di dieci giorni per tornare a Oliena. Nel 1898, dopo diciotto anni di latitanza, venne circondato dai carabinieri sui monti di Orgosolo insieme a un altro ricercato e a un pastorello di quindici anni. Mentre tentava di fuggire, fu ucciso da un tiratore scelto con un colpo alla schiena. Anche il pastorello venne ucciso, mentre l’altro ricercato riuscì a scappare”.
“Wow! Che storia avvincente!” esclamò Bren, e poi: “Ma tu sei un’enciclopedia vivente!”.
“D’inverno ho tanto tempo, e oltre alla pittura, leggo tutto quel che posso su questa mia amata terra. E se tornerai, quando ne avrai voglia, avrò tante altre cose da raccontarti. Ma ora andiamo”.
Stella guidava bene e non correva. Cosa molto gradita a Bren. E alla sua moto, che quando c’era una salita il motore sbuffava. Ma erano anni che la Triumph sbuffava così, e non si era mai fermata.
Dopo il diluvio dei giorni scorsi, finalmente c’era il sole, anche se a fine ottobre non abbagliava gli occhi. Però lui preferiva le giornate come queste, perché i colori dei paesaggi erano più morbidi, e si sentiva sereno come il cielo che stava sopra di lui.
Ma era solo il colore azzurro del cielo a farlo sentire così sereno, o anche i capelli ramati di Stella, che scorgeva attraverso il lunotto della Ypsilon?
Gli venne da pensare al sommo poeta. ‘E ai naviganti intenerisce il core…’.
E l’ora del desìo, per lui era già arrivata. Poiché dopo nemmeno un’ora da quando Stella era salita a bordo della sua auto, già desiderava averla accanto a sé.
C’erano pochi chilometri per arrivare a Siliqua e lui non vedeva l’ora di scendere dalla Triumph, sfilarsi il casco e togliersi la giacca, che imbottita di tutte le protezioni lo facevano muovere come un robot. E una volta liberatosi dell’armatura, avrebbe potuto dare sfogo a una certa necessità.
Attraversando l’abitato di Vallermosa, aveva rallentato perché la strada faceva una stretta curva, e quando l’ebbe superata, la Ypsilon era sparita. Ma poi vide Stella sul ciglio della strada, che con un braccio alzato gli faceva segno che si era fermata a quel distributore di benzina.
Entrò nel piazzale e si fermò dietro la sua auto, spense la moto e la mise sul cavalletto, e poi si tolse svelto il casco e la giacca. Pensando che con questa sosta non doveva aspettare di arrivare fino al castello per quella necessità.
Allora si avvicinò a Stella, che intanto aveva infilato la pistola della pompa di benzina nella bocca del serbatoio, e le disse: “Ho una necessità urgente…”. Lei gli rispose: “Il distributore è solo self, e qui non ci sono i servizi. Al primo bar ci fermiamo e vai alla toilette”.
“E’ un’altra necessità” rispose lui. E stava per abbracciarla e darle un bacio. Ma lei si ritrasse di colpo come le fosse andato vicino il diavolo “Ti pare il posto adatto? Se ci vede qualcuno…” disse.
Lui si guardò intorno e non vide anima viva. “Non mi pare che siamo tra la folla. E poi dove sta il problema?”. E lei: “Può arrivare qualche auto a far benzina”.
“Pensi che in questo viaggio potremo almeno tenerci per mano?”.
“E’ così necessario fare come i ragazzini per strada? Non dimenticare che sono ancora sposata”.
“Non mi pare un discorso coerente con ciò che mi hai detto, cioè che tuo marito ti ha dato la libertà di vivere la tua vita indipendentemente da lui. Con questo, non dico che possiamo fare l’amore in mezzo alla strada. Ma se in questi giorni mi venisse il desiderio di farti anche solo una carezza…”.
“Te lo fai passare. Non possiamo viaggiare come se fossimo dei semplici conoscenti? E poi alla sera, quando siamo nella camera dell’hotel… ”.
“E quando prendiamo la camera all’hotel, alla reception diciamo che siamo semplici conoscenti?”.
“Di camere ne prendiamo due, e poi…”
“Sai cosa ti dico? Che un viaggio come oscuri amanti, è l’ultima cosa che farei. E finisce qui”.
Poi Bren aprì la portiera dell’auto, prese i suoi due zaini e si avviò verso la moto.
“Ma perché te la prendi così? Perché non riesci a capire?” la voce di Stella era affranta. Mollò la pistola infilata nel serbatoio, gli corse dietro e gli afferrò uno zaino, tirandolo per portarglielo via.
Nessuno dei due parlava più, mentre si contendevano lo zaino.
Bren aveva mollato in terra l’altro, e con le mani tirava di qua, e Stella, che pareva gli fosse venuta la forza di Ercole, tirava di là.
Pareva la scena di un film muto di Ridolini. Ma c’era poco da ridere…
Solo l’ingresso di un’automobile nel piazzale fece desistere Stella, che mollò la presa, si diresse alla sua macchina, estrasse la pistola dal serbatoio e poi salì in auto. E prima di chiudere la portiera, voltò la testa verso Bren e gli disse ad alta voce: “Buona vita!”.
Poi accese il motore e partì.

 

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La lettera II° parte di VI
La lettera III° parte di VI
La lettera IV° parte di VI
La lettera VI° parte di VI

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