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L’ultimo pensiero

L’ultimo pensiero

di Giulio Ghirelli

I fari delle auto dei Finanzieri stavano perlustrando il piazzale di parcheggio dei TIR alla periferia nord di Milano. L’autista del camion che trasportava le sigarette di contrabbando lo avevano preso subito. Dei tre contrabbandieri che dovevano ritirare le stecche di sigarette per rivenderle nella metropoli, due erano riusciti a fuggire con la loro Alfetta, ma Gerri non ce l’aveva fatta a salire in auto con loro; e allora era scappato arrampicandosi sull’alta rete di cinta del parcheggio, l’aveva scavalcata e si era buttato nel prato, sdraiato tra l’erba alta. I Finanzieri non l’avevano visto. Bastava che stesse nascosto lì al buio fin quando le pattuglie non se ne fossero andate.

Gerri non era un contrabbandiere, lo era stato da ragazzo, a 13 anni, poco più che un bambino, l’età in cui era riuscito a non farsi più chiamare Geremia -il suo nome di battesimo- che proprio non gli piaceva. Geremia! Un vecchio profeta biblico dalla lunga barba bianca!

Che c’azzeccava con quel ragazzino con le gambe da stambecco che tutte le notti partiva dal suo paese, sulla costa occidentale del lago di Como, e insieme a gente più grande di lui, saliva su per i monti lariani per valicare la frontiera con la Svizzera. E tornare a tarda notte con la bricolla -il sacco- di sigarette in spalla. Grosso e pesante come quello dei suoi compagni più grandi. Una trentina di chili -più di mille pacchetti di sigarette- da sgroppare su e giù per le valli, scavalcare la ramina -la rete divisoria tra i due stati- e percorrere i sentieri senza far troppo rumore, perché bastava il cric di un rametto secco sotto lo scarpone, che potevano spuntare fuori i canarini -i finanzieri, così chiamati per lo stemma della fiamma gialla sulla divisa- che avevano le casermette dislocate nei punti di avvistamento dei sentieri, e che erano sempre con gli orecchi tesi come lupi in caccia.

Sui sentieri sassosi, per ridurre lo scalpiccio, sopra gli scarponi dovevi calzare i peduli -soprascarpe fatte con la stessa tela di iuta della bricolla-. E la roncolina sempre in tasca, perché se sbucavano fuori i canarini, dovevi tagliare svelto le cinghie della bricolla, per liberarti del carico e dartela a gambe levate. Meglio perdere il sacco che la libertà, perché se ti beccavano finivi in galera.
E a volte, per convincerti a fermarti, i canarini sparavano anche qualche colpo in aria, ma mica sapevi, nel buio della notte, dove finivano quei proiettili. E allora giù a rotta di collo, correndo a zig-zag tra le piante del bosco.
Al pari del nome di battesimo, neanche il termine contrabbandiere andava a genio a Gerri. Era troppo generico, lo stesso nome di quelli che fanno quel mestiere a bordo di auto o di motoscafi. Gente che quelle scalate notturne in quelle condizioni, manco se le sognano! Lui si sentiva un passamunt -passamonti- o sfroosadur, di quelli che van de sfroos –cioè di nascosto- a scavalcare le montagne. Anche due viaggi per notte nelle belle stagioni, e d’inverno con le gambe che affondano nella neve, perché i fumatori non hanno stagioni morte. E con qualche anno di quell’andirivieni, ti mettevi da parte un po’ di denaro per farti una modesta casetta. Certo non ti arricchivi, qualche soldo in più, come fare gli straordinari in fabbrica. Ma vuoi paragonare quelle silenziose notti stellate sui sentieri dei monti profumati di pino, confronto al rumore e alla rovente puzza dei laminatoi della ferriera di Dongo? In fabbrica, bastava e avanzava l’orario normale, per garantirti uno stipendio fisso, un posto sicuro.
E quanta ce n’era di gente che aveva un posto fisso, un lavoro regolare, che per arrotondare lo stipendio faceva un po’ di contrabbando! Per quelli del posto, era quasi una tradizione il mestiere di passamunt. Salivano sui monti a tarda sera, varcavano la frontiera svizzera e si recavano al luogo di ritiro della merce. Lì, preparavano el sacch -una grossa sacca di iuta con dentro i pacchetti di sigarette- se la inforcavano in spalla, e per gli sperduti sentieri montani rientravano in Italia.
Anche i suoi genitori, nel loro paese in riva al lago, vendevano qualche stecca di sigarette di contrabbando. E se avevano potuto toglierlo da quei monti e mandarlo a studiare a Como per fargli prendere il diploma di chef, era stato anche grazie a quel tabacco. Con quel diploma in tasca, aveva trovato un buon impiego in un albergo della vicina Lugano, e col cambio svizzero il suo stipendio era di tutto rispetto. Poteva permettersi di comprarsi qualche bel vestito, e un’auto sportiva, Alfetta Sprint, che per la gente di quei posti era l’emblema di chi ha fatto la grana.
Non che fosse diventato un riccone, ma poteva guardare il mondo un po’ più dall’alto che non i suoi vecchi amici, che uscivano in bicicletta dalla ferriera con la tuta unta di grasso, e invece lui tornava da Lugano sulla sua Alfetta, bello pulito in giacca e cravatta. Poco prima dei trent’anni, aveva conosciuto sulle rive del lago una turista milanese, e dopo qualche mese di andirivieni -un po’ lui, un po’ lei- avevano deciso di sposarsi, e si era lasciato convincere dalla morosa a lasciare il lavoro in Svizzera e trovare un posto a Milano. A malincuore, perché i suoi luoghi erano il paradiso in terra per lui, e poi gli amici…
Ma lei aveva un impiego sicuro -segretaria in una Università milanese- e rimpiazzarlo con un altro incerto sul lago… Mentre lui, col diploma di chef in tasca, non avrebbe avuto problemi. Potevano contare sulla liquidazione svizzera e qualche risparmio dei genitori per metter su casa, e poi, se il diavolo non ci metteva la coda… Il lavoro lo aveva trovato subito in un discreto ristorante -certo non con la paga di Lugano- però era durato poco, perché era sempre a litigare con quella testa di rapa del proprietario, che metteva il becco in cucina e lo trattava come uno sguattero.
I lavori che aveva trovato in seguito -modeste trattorie o cucine di mense aziendali- lo avevano scoraggiato a tal punto, che aveva deciso di cambiare mestiere. Il primo che capitava, pur di uscire da quel tunnel. E siccome era un uomo puntiglioso, piuttosto che fare un giorno da disoccupato, era andato a fare il magazziniere da un grossista di ferramenta. Ma lui, che conosceva tutti i tagli delle carni e i sughi per gli arrosti, che sapeva decorare i piatti con manicaretti e verdure che sembravano opere d’arte, e che dirigeva magistralmente orchestre di batterie da cucina, non ci stava niente bene in un magazzino di ferramenta a riempire pacchi di viti e bulloni. Per non parlare dello stipendio, che si era ridotto all’osso, e con l’arrivo di due figli da tirar grandi, c’era poco da scialare. I fine settimana tornava al suo paese lariano a trovare genitori e amici, ma anche per rientrare in città con qualche stecca di sigarette per arrotondare lo stipendio.
Poi, le cose con la moglie non erano più andate per il verso giusto, e si erano separati.
Per qualche anno si era barcamenato con quel lavoro di poca soddisfazione, fin quando aveva trovato una nuova compagna che, manco farlo apposta, gestiva insieme ai genitori un bar-trattoria. Per Gerri, e non solo per lui, quell’attività era stata una manna dal cielo; con le sue capacità, aveva dato un notevole incremento, sia di qualità che di clienti, all’andamento del locale.
Le cose si erano messe per il meglio, e anche se il genere di cucina della trattoria non era da gran ristorante, e non poteva esprimere tutta la sua professionalità, era soddisfatto di lavorare in proprio. Aveva lavorato sodo in tutti questi anni, dimostrando ai genitori che non avevano fatto inutili sacrifici per farlo studiare, e che si era fatto una buona posizione. Anche gli amici del paese lo guardavano con ammirazione. Loro, che per togliersi qualche sfizio, dovevano passare le nottate sui monti col sacco in spalla.
Aveva messo da parte un notevole gruzzolo, che incrementava anche con l’antica usanza dei suoi luoghi nativi. Non c’era un gran rischio a vendere ai clienti della trattoria qualche pacchetto di sigarette, e sapeva dove andare a rifornirsi senza fare viaggi avanti e indietro dal lago. In città aveva conosciuto della gente nel giro, e con loro andava in quel piazzale dei TIR dove arrivava la merce.
Però qualche viaggio al suo paese natio lo faceva sempre, non solo per trovare amici e parenti, ma per consegnare i suoi risparmi a un amico che glieli portava in Svizzera, un posto sicuro, esentasse. In fiducia. In quelle faccende è meglio che non ci siano ricevute, niente di scritto. Ti arriva in trattoria la Finanza per un controllo fiscale, trovano un numero di conto strano, l’indirizzo di qualcuno… Mica era arrivato a cinquant’anni, con le cose che filavano lisce come l’olio, per farsi incastrare da qualche traccia scritta! Tutto nella sua testa.
E anche alla compagna diceva niente, solo qualche vago cenno; per il resto: citto mosca! E tra non molto, con l’acquisto di un appartamento di tutto rispetto, lo avrebbe dimostrato a tutti, che lui nella vita si era dato da fare, aveva lavorato sodo e fatto fruttare bene i suoi risparmi. Magari avrebbe anche smesso di andare nel piazzale dei TIR. Cominciava a pesargli quel traffico. La fatica, lo stress, darsela a gambe levate quando arrivavano i Finanzieri. Ormai aveva una vita agiata, e per quei quattro soldi in più, non valeva proprio la pena di fare ancora quelle sfacchinate.
E poi questa notte, arrampicandosi sul reticolato, gli era venuto un forte dolore al petto.
Che cosa gli aveva detto il medico quando era andato a ritirare le solite analisi di controllo? Iperpressione… no, ipertensione… ipertensione arteriosa. Gli aveva prescritto delle pastiglie e una dieta. Forse lo spasmo che si stava diffondendo nelle costole c’entrava proprio con quella roba lì, l’ipertensione. Per togliersi il pensiero, l’indomani si sarebbe recato dal medico a dirgli di quel dolore. E giusto per non lasciare certi affari in sospeso, della faccenda dei soldi in Svizzera avrebbe fatto meglio a spiegare bene le cose alla sua compagna. Perché va bene fidarsi degli amici, ma se poi ti arriva qualche accidente, anche certi amici, quando c’è di mezzo la grana…   Per intanto doveva stare lì tranquillo, fin quando i Finanzieri non se ne fossero andati dal piazzale. Sdraiato in mezzo all’erba nel buio della notte, era impossibile che lo trovassero, era in un posto sicuro.
Forse fu questo l’ultimo pensiero, prima che il suo cuore schiantasse.

 

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