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Milano col violino in mano

Milano col violino in mano

di Giulio Ghirelli

Tempo fa, trasferendo su CD dei vecchi filmati, mi sono soffermato su un pezzo, dove si vede entrare in scena un signore sulla cinquantina con barba e occhiali; indossa un paio di pantaloni grigi, una camicia azzurra e un papillon a colori vivaci. Con una mano regge violino e archetto, con l’altra uno spartito di musica. Parte un caloroso applauso da un gruppetto di persone sedute davanti a lui. Il violinista (perché a questo punto il suo ruolo è evidente) fa un inchino, mette il foglio sul leggìo e annuncia il titolo del brano: “Carovana nel deserto” (una sonata per solo corde vuote di Alberto Curci). Poi appoggia il violino tra spalla e mento, porta l’archetto in posizione e dà un colpetto di tosse (da nervosismo sicuramente). Ancora un attimo di concentrazione, mentre il piccolo gruppo di spettatori trattiene il respiro in attesa. Finalmente inizia la sonata…
Ma a questo punto devo tornare indietro di un passo, perché voglio raccontarvi dall’inizio la mia avventura di violinista.
Inizio da quando mi recavo al quartiere Bicocca a prendere lezioni di violino. Sul volume “Enciclopedia di Milano” (Editore Franco Maria Ricci – I ediz.1997) leggo: “Bicocca (quartiere). Si estende nella zona 9, tra viale Testi, via Cozzi e via Sesto San Giovanni. Il suo centro ideale è la villa Arcimboldi, detta in milanese: la Bicocca, che sorge lungo viale Sarca, e il cui significato è quello di vecchio rudere (…)  Bicocca degli Arcimboldi: dimora patrizia di campagna, eretta nella seconda metà del Quattrocento, sulla strada che conduce a Sesto San Giovanni. Il palazzotto, seriamente danneggiato nel 1522 nel corso di una furiosa battaglia tra Francesi e Spagnoli, iniziò un lento processo di decadenza, fino ai restauri operati in questo secolo, prima da Ambrogio Annoni, e poi da Piero Portaluppi. Il loro intervento ha restituito alla città questo elegante edificio rinascimentale, di pianta rettangolare, sulle cui pareti si aprono le armoniche finestre ogivali a tutto sesto, e che culmina nella splendida terrazza coperta all’ultimo piano. Di pregio, all’interno, il ciclo di affreschi raffiguranti scene di vita milanese nel XV° secolo”. Ammetto che fino a quando non ho letto questa enciclopedia, sulla Bicocca sapevo solo che c’era la fabbrica della Pirelli e, un po’ più avanti, lo stabilimento della Breda.
E quando da ragazzino andavo fino da quelle parti, nelle spedizioni ciclistiche coi miei compagni del rione dei cipollai, mica avevo tutte queste curiosità storico-culturali. Le nostre escursioni volgevano alla ricerca di vecchie rovine da esplorare avventurosamente (un’altra era la villa Simonetta, in via Stilicone, altro rudere oggi restaurato, dove eravamo “di casa”). La mia passione per la musica classica è iniziata quando, nella casa di mia moglie, ho avuto l’opportunità di accedere alla discoteca (non quella con le luci psichedeliche, intendo la raccolta di dischi fonografici) di famiglia. In questa casa (dov’è vissuto un nonno insegnante di pianoforte al Conservatorio Verdi, il di lui figlio, maestro di pianoforte con un premio Chopin nel suo curriculum, e il papà di mia moglie che aveva studiato il violino), c’era una vasta collezione di dischi di musica sinfonica. E così ho incominciato a farmi l’orecchio su questo genere, fino ad appassionarmici; in particolar modo ai brani per violino.
Ma la folgorazione arrivò quando mi capitò tra le mani un disco con la sonata per violino e pianoforte “Il trillo del diavolo” di Giuseppe Tartini, eseguito dal grande violinista russo David Oistrakh (Odessa 1908-Amsterdam 1974). L’autore di questa sonata era un maestro del violino. Cito tre righe della Garzantina: “Tartini Giuseppe (Pirano d’Istria 1692-Padova 1770) violinista e compositore. Scrisse circa 140 concerti e 170 sonate (celebri tra queste: Il trillo del diavolo e Didone abbandonata) in cui, alla tecnica virtuosistica si accompagna una intensa espressività”.
Ormai perdutamente stregato dalla diabolica sonata, risulterà evidente che il violino del papà di mia moglie, che giaceva da decenni come una reliquia nella sua vecchia custodia di legno nero (che ormai aveva funzione di bara) mi intrigasse assai. E io ebbi l’onore (e l’onere) di farlo resuscitare. Ma fu il caso, che creò la situazione. Perché mai, e sottolineo mai, avrei preso l’iniziativa, a quasi cinquant’anni, di andare a cercarmi un insegnante di violino.
Poi, un pomeriggio di settembre del 1991, ero al quartiere Bicocca per lavoro e vidi appiccicato a un palo un volantino che proponeva lezioni di musica per strumenti vari, tra cui il violino. Ma la cosa che richiamò la mia attenzione, e fece innescare la miccia, era che su quel foglio si leggeva: Per tutte le età. Mi annotai il numero di telefono e il mattino dopo chiamai. Mi rispose una gentile vocina femminile, a cui dissi che ero interessato ai corsi, ma manco conoscevo le note. La gentile vocina rispose che lì insegnavano teoria e pratica.
“Senta signorina, sul volantino c’è scritto che non ci sono limiti d’età, perché io avrei quasi… ehm… cinquant’anni”.
“Complimenti! Però non mi dica signorina, io sono suor Adele. Le lezioni durano un’ora, nel pomeriggio tra le 16 e le 19. Che strumento vuole suonare?”. “Violino”.
“Noi abbiamo pianoforte, chitarre e flauti; il maestro di violino c’è, ma lo strumento lo deve portare l’allievo. Lei ce l’ha?”.
“Altroché!”.
Per farla breve, suor Adele mi disse il costo per lezione (modico) e mi diede l’indirizzo: un oratorio parrocchiale gestito dalle suore, in una via tra viale Zara e viale Sarca. Quella sera tornai a casa dal lavoro con l’entusiasmo di un ragazzino che sta per ricevere il regalo dei suoi sogni, ed espressi a mia moglie cosa intendevo fare. Lei, amorevole come sempre, condivise il mio entusiasmo. E mi disse: “Finalmente sentirò il suono del violino di papà, perché non l’ho mai sentito suonare”. Mi raccontò che suo padre si portava appresso il violino quando andava in Romania a trovare la sorella, e con lei, che aveva studiato pianoforte, faceva dei duetti. Ma nella casa milanese quel violino non usciva mai dalla custodia. E con in mano quella custodia di legno, la sera dopo mi presentai all’ingresso dell’oratorio. Mi accolse con un dolce sorriso suor Agnese che, come la sua vocina, era uno scricciolo. Mi spiegò che quel luogo fungeva da refettorio e doposcuola per i bambini delle elementari. Poi venivano dei maestri a insegnare musica. Il maestro Pini (quello che per tre anni sarebbe stato il mio insegnante di violino) stava facendo lezione.
“Vada ad aspettarlo in fondo a quel corridoio, fra qualche minuto esce” disse la vocina. Seguii le indicazioni della suora fino a trovarmi davanti a una porta chiusa.
Nel fare quel tragitto, incrociai un ragazzino che mi disse: “Buona sera prof ”.  “Ciao caro” risposi, senza spiegargli che nonostante il mio venerando aspetto, non ero un maestro, ma un aspirante alunno… Alle 18 e qualche minuto, si aprì la porta e sbucò un bimbo sugli otto anni, con in mano un piccolo violino, e poi uscì il maestro Pini, un giovanotto dall’aria timida e gentile, e con la metà degli anni miei, a cui esposi, un po’ titubante, i miei proponimenti. Il suo gioviale sorriso risolse ogni mia titubanza. Poi mi fece entrare nell’aula.
“Che bella custodia, di quelle di una volta. Anche il violino?” mi disse guardando la scatola che tenevo in mano. Come risposta, io posai la “bara” sopra un tavolo e la aprii. Quel violino l’avevo preso in mano molte volte, e avevo anche provato a strusciarci sopra l’archetto, ma erano usciti solo dei gemiti inquietanti. “Perbacco! Ha ancora le corde di budello. Posso?” disse il maestro Pini impugnando lo strumento. Se lo girò fra le mani osservandolo attentamente, e infilando lo sguardo dentro le effe, per vedere se all’interno della cassa ci fosse impresso qualche marchio. “Ha un bel po’ di anni e ha lavorato molto, sentiamo il suono” disse, mentre io pensavo che nella vita può succedere di tutto, anche di ritrovarsi tra le mani uno Stradivari.
Il maestro tese l’archetto, lo strofinò su una saponetta di pece, e si mise all’opera. Ma il suono non gli piaceva. Provò ad accordarlo meglio e a regolare il ponticello, ma niente. Lo rigirò ancora tra le mani, diede qualche colpetto con le nocche sul retro della cassa, la avvicinò agli occhi e infine emise il tragico verdetto: “Ha la cassa scollata”. Se il gioviale sorriso del maestro Pini mi aveva dato il viatico per un brillante futuro violinistico, quella diagnosi aveva generato l’effetto contrario, al punto di programmare la giusta sorte per quel vecchio rottame di legno: di qui a tre mesi, quando avremmo festeggiato il Natale accendendo il caminetto… “Bisogna farlo incollare -interruppe i miei barbari pensieri il maestro- se vuole posso darle l’indirizzo di un bravo liutaio. Magari la farà aspettare un po’, perché è un artigiano molto scrupoloso e non fa le cose con premura; Se decide di andarci, gli dica che la mando io. Se vuole, intanto potrebbe iniziare la teoria e il solfeggio. La fa un altro insegnante, e per gli orari deve parlare con suor Adele”.
Con scarso entusiasmo presi l’indirizzo del liutaio, un certo Nakamura di via Donizetti, salutai il Pini, poi ripercorsi il corridoio, salutai in fretta suor Adele, dicendole che ci saremmo sentiti, e mi avviai verso casa. Con un dilemma: Nakamura o caminetto? Non sto qui a raccontare i travagliati pensieri dei giorni seguenti. Ma non per la diffidenza sull’esito della riparazione del violino. Cribbio! Sono stato artigiano anch’io, mica vado a pensare queste cose! Il fatto è che quella scollatura la interpretavo come un segno del destino, che proferiva: “Ma tu, alla tua età, cosa ti vai a inventare?”. E poi, la prospettiva di sedermi su un banco per chissà quante settimane, a battere il tempo con le mani –battilevasinistradestra– senza il conforto di interporre fra queste lezioni qualche suonatina col violino, non mi piaceva affatto. E invece, una settimana dopo, seduto tra i fanciulli, iniziavo i miei bravi solfeggi all’oratorio della Bicocca.
Do-o-o-o, Re-e-e-e, Mi-i-i-i ….
Nel frattempo avevo portato il violino da questo Nakamura, ovviamente un giapponese. E fui felice di avere conosciuto questo maestro liutaio, perché fu una di quelle speciali occasioni della vita in cui si fanno incontri memorabili. il signor Nakamura aveva un piccolo laboratorio che era un gioiellino, costruiva e riparava strumenti con grande maestria. Il fatto che fosse a due passi dal Conservatorio Verdi, lo avvantaggiava. Ma guai a dirgli che avevi premura! Appena lo vidi, mi ricordai subito di lui, perché a volte lo incontravo al Conservatorio nelle serate dei concerti, ma non sapevo che facesse il liutaio. Gli mostrai il violino, lui lo esaminò attentamente, poi mi disse che era uno strumento di fattura artigianale di fine ’800. Non c’erano problemi a ripararlo: scollaggio della cassa, carteggiatura e incollaggio; sostituzione del ponticello, levigatura della tastiera (intaccata dalla pressione delle dita sulle corde), tornitura dei bischeri e sostituzione delle corde di budello (ormai obsolete) con quelle di metallo armonico. E il violino sarebbe tornato ai suoi splendori. Invece l’archetto bisognava proprio cambiarlo, perché era storto.
Dopo quella diagnosi, la “soluzione caminetto” era l’unica. “Lunga vita a buon violino!” disse Nakamura, come a scongiurare gli indegni propositi che mi frullavano nella testa. Solo, e sottolineo solo, per dimostrare che avevo un animo dignitoso, e un rispetto per la memoria del proprietario del violino, gli dissi di ripararlo, e senza neppure chiedergli il costo. Lui inchinò la testa e sorrise, come fanno sempre gli orientali. Su indicazioni del maestro di teoria, avevo fatto rifornimento dei testi occorrenti: (Gentilucci “Trattato di teoria”, Pozzoli “Solfeggi parlati e cantati”). E tre sere alla settimana, dalle 18 alle 19, andavo a lezione di teoria e solfeggio. Ogni tanto incontravo il maestro Pini, che mi chiedeva notizie del mio violino. “Vada a tampinarlo, perché Nakamura va tenuto sotto pressione” suggeriva il Pini.
E io, malvolentieri, andavo a tampinare il liutaio. Malvolentieri, perché da vecchio artigiano conosco le rotture di scatole che procurano i clienti che vogliono le cose in fretta. Oltre al fatto che è risaputo che il “presto” non va d’accordo col “bene”. E ogni volta che ci andavo, Nakamura mi portava in laboratorio a vedere il mio violino, che giaceva sempre lì, tutto a pezzetti su un banco. Ci si può immaginare il magone che mi veniva nel vedere il violino in quello stato. E il liutaio sempre a elencarmi tutti i lavori che aveva prima del mio. Cosa potevo fare? Mettere in un sacchetto i miei pezzetti e mandare a quel paese il japan? Ma poi, dopo una sequela di preci a santa Cecilia (patrona di liutai e musicisti), le cose presero un’altra piega.
In una di quelle mie visite a Nakamura, non mi ricordo come, il discorso finì sulla mia professione. Saputo che fabbricavo lame, mi chiese se ero in grado di fargli un utensile. “Forse” risposi. E allora mi spiegò che gli serviva una sgorbia per fare delle scanalature negli archetti, e sagomata come la voleva lui non riusciva a trovarla in commercio. “Lei può fale sgolbia?”. “Io fare sgorbia se lei fare violino”. E così, non solo ebbi il violino a tempo di record, ma il Naka mi fece omaggio di un archetto. E non moderno, ma uno antico da lui restaurato, che faceva pendant col violino. Inoltre, il liutaio mi chiese altri utensili speciali, e nelle frequentazioni tecniche nel suo laboratorio, potei assistere alle varie lavorazioni che il maestro eseguiva. Fantastico!
Quando mi vedevo col maestro Pini per le lezioni, e gli narravo queste cose, gli dicevo scherzando: “Se deve farsi fare qualche lavoro da Nakamura, gli dica che la mando io!”. Con le lezioni pratiche, il tempo detratto alla mia attività lavorativa era raddoppiato. Per tre giorni alla settimana, alle ore 16 lasciavo la mia officina di Saronno e mi recavo alla Bicocca. Il tempo rubato al mio lavoro lo recuperavo andando in officina anche alla domenica. E nella pausa di mezzogiorno non andavo più a mangiare. Aspettavo che gli operai uscissero e poi mi chiudevo in ufficio a studiare. La Birba, la mia cagnolina bastardina, quando mi vedeva aprire la custodia del violino, si metteva a raspare davanti alla porta per uscire. E tornava dentro solo quando vedeva rientrare gli operai (non ho mai capito se non sopportasse il suono dello strumento, o le mie performance). E alla sera, dopo cena mi chiudevo in studio e… tacabanda!
Tutto ciò è durato tre anni e poi mi arresi, prendendo atto che nel mio DNA non c’è il gene del violinista. Tuttavia è stata una bella esperienza, ho capito qualcosa del complesso studio della musica, mi sono fatto l’orecchio e ho conosciuto persone interessanti. Ogni tanto apro la “bara” e faccio prendere aria al violino (che ho appurato non essere uno Stradivari) strimpellando qualche motivetto. E se un giorno riuscissi a comporre una musica, la intitolerei: Milano col violino in mano. E ora concludo il discorso iniziale. Ero arrivato a quando: Finalmente inizia la sonata.
Il brano (eseguito in tre minuti e mezzo circa) conduce la fantasia verso una colonna di cammelli che ciondolano sulla sabbia, nello scenario del sole che sta tramontando dietro le dune. Ci si potrebbe anche immaginare un’oasi con delle palme, dove la carovana si ferma a bivaccare. E poi figurarsi nella mente un arabesco accampamento saturo di odori esotici, dove misteriose odalische velate danzano, con sinuose movenze, davanti a tenebrosi tuareg…
Sooooooool-Re-Sol       
L’esecuzione è terminata. Dal gruppetto di persone parte l’applauso. L’anziana signora Margherita Presbitero Daqua, presente con la figlia Micaela, emette un “bravo!”. Il Prof. Mario Cubbino e sua moglie Carla Marchini applaudono calorosamente alzandosi in piedi (altrimenti che amici sarebbero?…). Dal fondo della sala, mia moglie immortalò l’evento con la videocamera.
La rappresentazione avvenne il 25 dicembre 1991, tre mesi dopo l’inizio delle mie lezioni musicali, e a rallegrare il Natale era acceso il caminetto.

 

 

 

 

 

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