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Poenta e renga

Poenta e renga

di Giulio Ghirelli
Navigando tra i miei ricordi di viaggio, mi è venuta sotto gli occhi una fotografia scattata nel 2001 a un mercato di Reggio Emilia.
Una fotografia di scarso interesse, dato che riproduce semplicemente dei pesci secchi.
Ma il motivo di quello scatto era legato a un ricordo della mia fanciullezza.
I miei genitori erano contadini nativi di un paese del Basso Polesine, che, come tanta altra povera gente, erano emigrati a Milano negli anni ’40.
Per le vacanze natalizie, andavamo al loro paese natio a trovare i parenti -che erano tanti- e come si usava nelle famiglie contadine, il pranzo natalizio si faceva in casa del patriarca della famiglia -che era lo zio Arturo, il fratello più vecchio della stirpe, dato che il nonno era già morto- e, tra fratelli, cugini, figli e nipoti, era una tavolata più numerosa di un pranzo di matrimonio. E pure le portate erano degne di un pranzo nuziale; non si finiva di mangiare che a tarda sera.
Invece la sera della vigilia il pranzo era veramente scarso e, per il mio olfatto di fanciullo cittadino, era pure puzzolente.
Un’unica portata: Poenta e renga, cioè polenta e aringa. Uno dei più poveri cibi della tradizione contadina.
L’aringa -detta anche salacca o saracca- fa parte delle specie di pesci poco utilizzati per il consumo immediato, a causa di un’elevata quantità di spine. Viene quindi trasformato per essere consumato come saporito pesce essiccato.
Una volta privato delle viscere, viene messo in salamoia -a volte anche affumicato- e poi viene stipato in barili di legno e conservato mediante salatura. E come tanti cibi che una volta erano alimenti per i poveri, ora si è rivalutato.
La sera della vigilia eravamo in pochi, solo i famigliari dello zio Arturo. Sua moglie, la zia Bergama, metteva un’aringa sulla graticola sopra la brace e la faceva arrostire.
In tutta la stanza si spandeva un forte odore -per me fanciullo era un odore puzzolente- e quella cottura faceva esaltare il forte e salato sapore del pesce.
Intanto aveva già cotto la polenta, che una volta raffreddata, aveva tagliata a fettine e le aveva fatte abbrustolire fin quando erano diventate secche e croccanti.
Quando era tutto pronto, lo zio Arturo legava un cordino alla coda dell’aringa e l’appendeva al trave di legno del soffitto, in modo che il pesce penzolasse un paio di spanne sopra la tavola. Poi iniziava il banchetto. I commensali strofinavano le fette di polenta abbrustolita sull’aringa per insaporirle, e quella era la cena.
Ma a me l’odore di quella pietanza faceva venire la nausea. Allora la zia Bergama, zia misericordiosa, mi preparava una tazza di pane e latte, che andavo a consumare in un angolo della stanza, il più lontano possibile da quel forte odore del pesce.
Solo col tempo ho capito il motivo di quella misera cena, che contrastava nettamente col generoso pranzo natalizio del giorno dopo. Quei miei parenti avevano avuto un gran miseria nella loro vita, e quelle fette di polenta strofinate sull’aringa erano state soventemente il loro pasto quotidiano. E per non dimenticarsi di quella stentata vita, quando avevano raggiunto un po’ di benessere, lo zio Arturo voleva che alla vigilia dell’abbuffata natalizia, si cenasse con quel misero pasto.
Era la sua filosofia: per apprezzare ciò che si ha, bisogna ricordarsi di quando non lo si aveva.
Questa saggezza di un contadino che a malapena sapeva leggere e fare la sua firma, è simile a quella del grande letterato Primo Levi, che con motivazioni molto più tragiche scrisse: Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.
Una frase che tutti noi dovremmo avere sempre impressa nella mente.

 

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